Works

2024-2025

Rifugio esistenziale

Con la performance Rifugio Esistenziale, Sabrina Galli esplora in chiave poetica e simbolica il proprio vissuto relazionale e la percezione dell’alterità. L’opera nasce dall’urgenza di rappresentare il complesso equilibrio tra desiderio di connessione e bisogno di protezione.

Durante l’azione, l’artista rimane seduta per 24 minuti all’interno di una struttura ricavata da una scatola di cartone, trasformata manualmente in una sorta di rifugio precario. L’esterno è stato rivestito con frammenti di cartone, a evocare l’estetica grezza e vulnerabile di una tana costruita con mezzi di fortuna. Su ciascun lato sono state inserite lenti ottiche – provenienti da obiettivi fotografici e strumenti di ingrandimento – che permettono al pubblico di scrutare all’interno, ma solo in modo distorto e frammentario.

Gli spettatori sono invitati a camminare intorno alla struttura, osservando l’artista attraverso queste lenti, che alterano la visione e generano un senso di distanza e incomunicabilità. All’interno, Galli annota in silenzio pensieri e impressioni personali, destinati però a restare invisibili, sottolineando così la difficoltà di instaurare un contatto autentico e trasparente.

Rifugio Esistenziale si configura come una metafora della dimensione intima dell’artista: uno spazio sicuro e protettivo, non ostile ma selettivo, che riflette la necessità di costruire un proprio “guscio” per potersi aprire, gradualmente, al mondo esterno


Come ti vedi ora?

L’opera Come ti vedi ora? si presenta come un’installazione immersiva che indaga in modo critico l’impatto pervasivo delle immagini idealizzate del corpo veicolate dai social media. Al centro del lavoro vi è una riflessione sulla costruzione dell’identità attraverso la visione – e distorsione– del corpo, nella società contemporanea ipermediata.

Lo spettatore è invitato a interagire fisicamente con una struttura cubica sopraelevata, introducendo la testa e parte del busto all’interno di uno spazio ristretto e avvolgente. Al suo interno, due schermi e due specchi sono disposti sulle pareti laterali, generando un ambiente visivo e simbolico in cui la percezione del corpo viene continuamente messa in discussione.

I monitor proiettano in loop un montaggio video composto da immagini di corpi maschili e femminili selezionati dall’artista attraverso un account Instagram creato ad hoc. Le immagini, raccolte tramite screenshot, rimandano a una corporeità patinata, stereotipata, apparentemente perfetta. A queste si sovrappone un sottofondo sonoro fatto di voci indistinte, chiacchiericci e suoni disturbanti, che intensificano l’effetto di sovrastimolazione e disorientamento.

Attraverso l’interazione diretta e lo specchiarsi in uno spazio saturo di rappresentazioni altrui, l’installazione intende sollecitare una riflessione critica sulla percezione del sé e sulle dinamiche di alienazione e insoddisfazione corporea indotte dai social network. Il lavoro invita così a interrogarsi non solo su come ci vediamo, ma soprattutto su quanto lo sguardo degli altri condizioni il nostro.


Sciacquare il passato dal corpo presente.

L’azione performativa si sviluppa a partire da un gesto intimo e rituale: l’artista scrive sulla propria pelle frasi tratte dai propri diari personali, risalenti agli anni 2020 e 2021. Le parole, incise con l’inchiostro sulla superficie del corpo, diventano tracce visibili di esperienze passate, pensieri, ferite, memorie emotive.

Successivamente, in un gesto lento e deliberato, l’artista inizia a lavare via quelle scritte, come a voler purificare simbolicamente il corpo da ciò che è stato, separare il presente dal passato, rinegoziare la propria identità a partire da una superficie resa nuovamente nuda. Tuttavia, anche dopo il lavaggio, sul corpo restano aloni, segni sbiaditi, una traccia sottile ma persistente: memoria incancellabile di ciò che si è vissuto.

L’opera si configura così come una riflessione sulla vulnerabilità, sulla memoria corporea e sulla possibilità – o impossibilità – di lasciarsi davvero alle spalle il proprio passato. Il corpo diventa archivio vivo, luogo di iscrizione e cancellazione, spazio di trasformazione. La performance invita a meditare sulla ciclicità della guarigione e sul rapporto tra ciò che è stato scritto nella carne e ciò che possiamo, col tempo, riscrivere.


Al passo con i tempi

Il video mostra l’artista che cammina freneticamente con due sveglie legate alle caviglie, mentre in sottofondo si sente il ticchettio incalzante di un orologio, che accelera progressivamente. Il ritmo si fa sempre più convulso, la camminata perde armonia, fino a quando l’artista inciampa, cade e si rialza rapidamente. Nell’ultima sequenza, si libera delle sveglie, lasciandole a terra come simbolo di una presa di coscienza e di rottura.

L’opera riflette sulle pressioni sociali e culturali che gravano soprattutto sui giovani, continuamente esortati a “stare al passo con i tempi”: laurearsi in fretta, trovare un impiego, costruirsi un futuro in un contesto segnato da crisi economiche, precarietà e aspettative spesso irrealistiche. Il tempo, nella sua dimensione simbolica e sonora, diventa vincolo e ossessione, misura esterna che comprime i ritmi interiori.

Nel finale, tuttavia, l’azione si apre a un gesto liberatorio: l’artista suggerisce la possibilità di sottrarsi, almeno in parte, a queste dinamiche, recuperando un tempo personale, soggettivo, in cui ritrovare equilibrio e autonomia. Al passo con i tempi diventa così una riflessione visiva sulla libertà interiore e sulla necessità di disinnescare le logiche performative imposte dalla società.

Muse rifatte

La serie Muse rifatte indaga il divario tra la rappresentazione storica del corpo femminile e i canoni estetici imposti dalla cultura contemporanea. Attraverso interventi digitali su dipinti iconici della storia dell’arte – dalla Gioconda alla Nascita di Venere fino alla Venere di Urbino – l’artista trasforma i corpi originari adattandoli agli standard attuali: addome piatto, seni voluminosi, gambe affusolate, pelle levigata, proporzioni innaturalmente omologate.

Il risultato è un cortocircuito visivo e concettuale che mette in discussione l’idea stessa di bellezza. Se un tempo il corpo femminile era celebrato nella sua varietà e imperfezione, oggi sembra rispondere a un modello unico, costruito e perpetuato dai media, dalla moda e dai social network.

Muse rifatte invita a riflettere sulle dinamiche di controllo e standardizzazione che agiscono sul corpo e sull’identità femminile, mettendo in luce come la bellezza – da espressione dell’individualità – si sia progressivamente trasformata in un obiettivo artificiale, uniformante e spesso inaccessibile. Il lavoro propone così uno sguardo critico e ironico sulla persistente attualità del corpo come campo di battaglia simbolico.